Nella città reale un grande numero di fenomeni interviene in modo determinante sulla presenza o assenza, sulla dimensione architettonica, sui tempi e i modi d’uso degli edifici pubblici. Questi fenomeni mettono in discussione numerosi assunti disciplinari, e per tale ragione devono ormai entrare in rapporto con il progetto

di Zeila Tesoriere

 

Per comprendere meglio le difficoltà nella produzione dell’architettura del Pubblico di molte città reali, va ampliato il quadro in cui esse si producono, orientando le capacità di conoscenza dell’architettura verso alcuni fattori determinanti nella materializzazione dei fatti urbani e del progetto. Fra tali fattori determinanti, in alcune città come Palermo va considerato il ruolo di forze antidemocratiche, che fanno concorrenza allo Stato o addirittura mirano a sostituirlo. Esse hanno disponibilità finanziarie ingenti e di origine molto diversificata, cui fa seguito una capacità morfogenetica che resta interamente da indagare.

Le finanze illegali delle criminalità organizzate devono dunque essere considerate fra le altre forme ultra-liberiste del tardo capitalismo ed è necessario coglierne il ruolo non solo nella produzione del corpo urbano, ma anche riguardo all’esistenza e alla consistenza edilizia ed architettonica degli edifici che esse producono.

L’ipotesi di fondo della ricerca che dedico ormai da due anni all’Architettura per i beni confiscati è che la crisi del Pubblico non può più essere compresa nella tradizione del rapporto di cooperazione o competizione tra pubblico e privato, che ha dominato nella teoria architettonica e urbana degli ultimi centocinquant’anni. Se l’edificio pubblico è al tempo stesso il luogo materiale e simbolico della presenza delle Istituzioni in un territorio; se la sua forma, la sua modalità d’impianto urbano, la sua dimensione linguistica, sono espressione di valore collettivi nel rispetto della legalità e di condivisione di pratiche civiche, cosa succede nei contesti in cui queste Istituzioni sono sistematicamente contrastate da elementi antidemocratici ed eversivi? La ricerca indaga pertanto il rapporto fra la produzione dell’architettura della res publica e i contesti in cui il concetto di Pubblico è in panne, in cui la diversione dalla legge e l’antagonismo esercitato da forze illegali non è un’aberrazione temporanea, ma la regola, e lascia tracce materiali sui modi di produzione delle forme costruite.

 

 

 

In tale quadro internazionale e comparativo ho avviato dall’AA 2019-2020 un insieme di attività sul tema dell’architettura per i beni confiscati, data la centralità che il tema riveste in un territorio come quello palermitano e la sostanziale assenza degli studi disciplinari nel merito.

Sono oggetto di indagine particolare la dimensione spaziale, a livello urbano, architettonico e microscalare, dell’edilizia oggetto di confisca e l’impatto diretto o indiretto che tale fenomeno ha sulla costituzione del Patrimonio Pubblico di edifici, servizi, spazi.

L’approccio diretto a casi reali rinvenuti sui terreni di studio fonda la ricerca sulla descrivibilità delle condizioni architettoniche in atto e potenziali dei manufatti, sia rispetto alla congruità fra le loro forme e le funzioni in esercizio, che in merito alla natura simbolica, linguistica e semantica degli edifici pubblici (o divenuti pubblici in seguito a confisca) rispetto al loro livello -accordato o negato – di pertinenza istituzionale e rispetto alle pratiche e alla costruzione delle identità dei singoli e dei gruppi dei cittadini fruitori.

I territori sui quali la criminalità organizzata investe abitualmente le proprie economie sono traumatizzati dal segno profondo che le logiche e i modi criminali di produzione del costruito lasciano sul territorio.

Sono inoltre territori deprivati delle loro risorse naturali, geografiche, ambientali e -concetto più complesso – patrimoniali. Sono territori che soffrono di una mancanza cronica di edifici istituzionali per funzioni collettive (scuole, biblioteche, centri vaccinali, sedi ASP, uffici), che vengono allocate all’interno degli edifici confiscati, senza che il progetto di architettura intervenga per un loro reale adeguamento funzionale, ma soprattutto per l’indispensabile rifondazione semantica e linguistica senza la quale non si può ritenere compiuta la piena transizione dei beni confiscati a beni pubblici.

I casi in esame, fra i quali spicca quello iconico e di scala territoriale di Pizzo Sella, mostrano come la città reale in contesti politici di conflitto fra forze dello Stato e forze antidemocratiche aggiornino i paradigmi in cui inquadrare i concetti di sostenibilità e resilienza. Da intendersi non solo in termini ambientali e da riferirsi non solo a dati analitici, essi diventano operatori determinanti di una più ampia rinascita civica. La resilienza di cui questi territori fanno esperienza è antropologica, culturale, economica, patrimoniale, sempre collettiva e, per questo, pubblica. Essa va perseguita attraverso progetti di architettura che trasformino i beni secondo un principio di sostenibilità economica e politica dei processi di conversione. Nuove funzioni e un’idea performativa piuttosto che rappresentativa dell’edificio pubblico consentono ai beni confiscati di trasformarsi da elementi di aggressione territoriale a risorsa, attuando una piena restituzione al loro riuso sociale.