Nel momento più difficile che l’umanità deve affrontare da secoli a questa parte, è necessario ricordare che tutta la faccenda della resilienza, della diversità, della sostenibilità, dell’adattamento non sono una moda di oggi. Si tratta invece di teorie radicate ormai nella storia e che lottano da molto tempo con gli interessi economici e le distorsioni di sistema per emergere a livello globale.
di Benedetta Medas
C’è chi, da persona illuminata ne parlava già molto tempo fa, quando il germe della rivoluzione iniziava ad ardere dall’interno del sistema e si iniziava a percepire il disagio della vita nella città moderna: l’habitat fertile per lo sviluppo di nevrosi, disparità e dispersione. Parliamo di coloro che ci hanno condotto alla consapevolezza che qualcosa (e più di qualcosa!) deve cambiare. Partendo dalla concezione della città contemporanea, passando per l’iniquità e l’ingiustizia sociale, fino al cambiamento climatico che sta mettendo a dura prova il genere umano, gli ecosistemi e la nostra stessa sopravvivenza.
In principio fu Jane Jacobs.
L’attivismo era certamente nelle sue corde, uscire dagli schemi, farsi sentire, manifestare e mobilitare le masse, una missione. Jane Jacobs è l’esempio di chi alle regole ingiuste proprio non ci sta e preferisce cambiare aria. Nel ‘69 lascia gli Stati Uniti, se ne va perché rifiuta le motivazioni che scatenano la guerra in Vietnam.
In una società strettamente maschile e maschilista come la nostra, in cui l’iniquità dilaga non solo nella distribuzione delle ricchezze, ma anche nella parità di genere, è curioso (se non fondamentale) che sia stata proprio una donna ad accorgersi che qualcosa, nella pianificazione moderna, non andava. La figura di Jane Jacobs travalica quella retorica conservatrice che avvolge la battaglia centenaria sulla parità di genere. Le sue azioni hanno smosso quel sottobosco pietrificato di concetti che la generazione tra le due guerre dava per verità vera.
Jane Jacobs ha osservato con occhio clinico e curioso come si svolgeva la vita nella sua città. In “The life and death of great American cities” conduce un’analisi complessa sulle abitudini della popolazione, sull’attitudine degli spazi, sulle proporzioni tra uomo e i luoghi che abita, sull’incidenza che le autostrade (contro cui si batterà strenuamente) hanno sulla vivibilità e la vivacità delle città. Ha visto l’immensità degli spazi verdi lecorbuseriani fagocitare le figurine microscopiche degli uomini che li abitavano (e che, per la verità, li evitavano). Ha ritrovato il perché del brulicare delle strade del centro e l’importanza di avere degli “eyes on the street”, i guardiani volontari che d’istinto proteggono il vicinato da loschi figuri, atti di vandalismo, tentate rapine e via discorrendo.
Questa sua osservazione critica e puntuale ha portato all’apertura di un vero vaso di Pandora, dove tutti i precetti della cultura urbanistica moderna vanno in frantumi, scontrandosi con l’evidenza di un malessere diffuso a tutti i livelli.
La città moderna copre enormi distanze e la separazione in cosiddette zone funzionali (e disfunzionali) ha dato il via all’uso dei veicoli a motore fino all’esasperazione, un dato che è solo la punta di un iceberg ormai non più tanto sommerso. L’indice di benessere economico corrispondente alla capacità di comprare un’automobile è stato forse frainteso. E la capacità di spesa conseguente alla rinascita economica ha dato l’illusione di poter disporre di beni e risorse senza conseguenze. Questo benessere si è tramutato rapidamente in un profondo disagio che ha compromesso sotto molteplici aspetti la vita dell’uomo e, prima di ogni cosa, la salute del pianeta che abitiamo.
Se dovessimo fare una riflessione sulle conseguenze di un dato, direi quasi banale, come questo, ci accorgeremmo presto che non si tratta solo dell’automobile, anche se per lungo tempo l’inquinamento da smog è stato al centro dell’opinione pubblica. Il punto invece è l’architettura della città, la sua struttura, le risorse che richiede, il sistema economico che la domina, la società che la abita. È la forma della città moderna e contemporanea, la metropoli, ricca di opportunità ma anche di molteplici nefandezze. Un mostro energivoro e poco accogliente che ha fatto della ricchezza l’unico, temporaneo punto di forza.
Prendiamo in esame i progetti urbanistici realizzati nell’età dorata del primo ‘900. Ci accorgiamo che si assomigliano un po’ tutti (senza considerare naturalmente le differenze di stile e di concetto dei loro pensatori).
Nel desiderio spasmodico di accogliere quella fetta di popolazione meno abbiente, l’architetto di una volta (ma non di tanto tempo fa) si è abbandonato alla teoria senza riscontri pratici. Ha abbellito la città di fantasmagorici spazi verdi pensando che potessero rendere la città bella, vivibile e salubre, senza pensare che invece sarebbero stati così grandi da essere disorientanti, dispersivi e inutilizzati. E, come sostiene Jane Jacobs, un territorio formidabile per il mercato della droga, il vagabondaggio ed il terreno di scontro prediletto per le lotte tra gang rivali. Oltretutto, per arrivarci, era probabile che si dovesse attraversare una strada a scorrimento veloce, scoraggiando ulteriormente il potenziale avventore, che alla pelle ci teneva.
I grandi complessi edilizi realizzati su misura per i futuri residenti interrompevano il dialogo fino ad allora esistente con il resto della città. C’era chi li pensava con uno sviluppo orizzontale e chi verticale, ma il nocciolo della questione non cambiava. Nessun punto di osservazione, nessuna possibilità di comunicazione. Il tutto precisamente dimensionato per famiglie quantificate. Anche quando l’oggetto del social housing non era il mostro di cemento ma la graziosa villetta a schiera o anche la villa borghese isolata, eretta nella cosiddetta zona residenziale, il discorso era lo stesso. La lontananza obbligava all’uso dell’automobile e nonostante non si vivesse in città, la desolazione circostante non invogliava a godersi l’aria buona. Ognuno restava chiuso in casa, nessun contatto con i vicini che, al massimo, venivano guardati con sospetto.
Ora lo sappiamo, l’idea di ammassare gli abitanti in periferie e edifici ad altissima densità abitativa che hanno finito per diventare dei veri e propri ghetti, è stata una pessima idea. Anche perché poi nessuno ha più voluto occuparsene.
Jane Jacobs però questo, l’aveva già detto nel ’61. Analizzando alcune vie del centro così poco geometrizzate, disordinate e chiassose, aveva notato che il tasso di reati era davvero bassissimo e che lo spirito di appartenenza era particolarmente radicato nei suoi abitanti. Ognuno di loro dava un contributo aumentando il livello di sicurezza reale e percepita, scatenando una vivacità che ne aumentava la ricchezza in termini economici e relazionali. Ognuno di loro si riconosceva nel luogo che abitava e per questo si adoperava per la comunità. In fondo non era necessario usare l’automobile, costruire centri commerciali, abitare lontani anni luce da tutti i servizi, anche se in una graziosa zona residenziale.
Jane Jacobs intuisce quello che Leonardo aveva concepito 500 anni prima, non potendo conoscere la città moderna. Ciò che funziona, nella città, che la rende sostenibile e resiliente risiede in una forma di cooperazione, di mutua osservazione, di senso di appartenenza. Ciò che ci occorre è intessere, relazioni che ci consentano di ristabilire un equilibrio quasi irrecuperabile. Il modello non è molto distante da quello della città compatta medievale che l’Italia conosce bene. Una città in cui si stabiliscono relazioni come quelle osservate da Jane Jacobs, dove le strade sono strette e tortuose, ma la partecipazione dei residenti è altissima, la permeabilità tra pubblico e privato è di nuovo fluida, dove i flussi di persone e gli “eyes on the street” ne assicurano la vivibilità a tutte le ore del giorno e della notte. Dalla moltiplicazione di relazioni e di opportunità si genera la resilienza e la predisposizione all’adattamento della città, quella capacità di essere multiforme, duttile e fluida per sopravvivere e rifiorire.