Chi vuole guardare bene la terra deve tenersi alla distanza necessaria.
Italo Calvino, Il barone rampante

di Elisa Poli

Guardare dall’alto. In vetta, dall’oblò, sulla Tour Eiffel, con il drone, in elicottero, tramite il satellite, per sfida, necessità del viaggio, curiosità turistica, dominio di senso o esaltazione dei sensi, per abbracciare la molteplicità degli elementi in un territorio o per constatarne la diversità rispetto ad altri. Guardare dall’alto in basso come segno distintivo di superiorità perché dalla posizione fisica delle persone si scivola in fretta alla fenomenologia delle azioni. Lo sguardo dall’altro è rarefatto, come ci spiegarono gli Eames nel loro iconico film del 1977, Powers of Ten[1], in cui la relatività della scala è illustrata attraverso la moltiplicazione o divisione dei multipli di 10 che sono anche un modo per dichiarare quanto il pieno dell’uno sia inferiore ai vuoti dello zero. Più si sale maggiore è lo spazio conquistato, il vuoto a perdere che sta tra le cose e le case, anche perché spazio, che mantiene il duplice significato semantico in molte lingue, indica sia il campo disponibile per gli oggetti della realtà sia l’interezza del cosmo. Il lusso del distanziamento dai corpi limitrofi che avviene salendo molto o scendendo in verticale, si è trasformato da un anno e mezzo in una coercizione che nasconde la paura dell’invisibile. Nella metropoli moderna e congestionata, salire è segno di privilegio, una regola di mercato che è stata rappresentata sin dagli anni Venti dello scorso secolo, nei film di Fritz Lang come nelle distopie di Philip Dick, ma la soglia ultima degli edifici, il tetto, è stata più spesso esclusa che integrata in questa corsa all’auto-rappresentazione zenitale. La città che sale implica uno spostamento dello sguardo, il piano nobile non è più sufficiente per simbolizzare posizione sociale e funzione pubblica, bisogna rincorrere la verticalità degli edifici che gareggiano tra loro per ottenere il primato di visibilità sia di chi li ammira sia di chi li usa per osservare senza essere visto. Voyeurismo architettonico. Proprio questo sembra essere stato a lungo il limite della narrazione delle metropoli verticali, cristallizzate nel senso della vista, quello di chi sta di vedetta ma anche quello dell’esploratore ottocentesco, nonostante la diversa lettura che ci offre Barthes:

 

In breve, il rapporto intimo che unisce il visitatore alla Torre non deriva dal seppellimento, come nel caso dei monumenti classici il cui archetipo è la caverna, ma dallo sfioramento aereo. Visitare la Torre è come diventarne il parassita non l’esploratore; si verifica un transfert della funzione di appropriazione comprovato dalla forma tutrice del monumento: la Torre sostiene anziché contenere[2].

 

L’edificio a torre sostiene, prima di tutto, lo sguardo polifemico, quella visione dello spazio che nel Novecento diventa astigmatica, incapace di cogliere e mettere a fuoco simultaneamente l’infinito numero di oggetti e movimenti che compongono la città verticale, sia diurna sia nella sua versione al negativo, notturna, quando l’oscurità oblitera i contorni e le luci artificiali ingrassano i volumi delle infrastrutture. Nell’attimo in cui lo sguardo la ingloba la città sfuma, come se l’altezza fosse una vertigine momentanea piuttosto che una condizione stabile. Il vertice di questo sbandamento è il tetto, punto apicale delle fatiche del grimpeur tecnologico e positivista che nel roof non vede più un limite ma una soglia performativa da superare continuamente. Più in alto, allegoria del successo, più veloce, metafora della vittoria, più costoso, simbolo del potere; il tetto modernista è l’asta mobile che misura il primato del mondo occidentale: piano, terrazzato, armato, vetrato, somiglia alla teca di un museo con l’eccezione che il valore del contenuto esposto è decretato dal contenitore stesso. L’élite dei tetti non si accontenta di occuparli, vuole anche renderli inaccessibili agli altri, un’apartheid in cui non servono recinzioni o cancelli ma l’ascensore di Mr. Otis[3]. Se il lift è l’elemento propulsore per governare l’intero edificio allora il tetto diventa il suo spazio eiaculatorio, più unn decollo che un atterraggio. Al tetto si arriva o dal tetto si parte?

Dilatato nella dimensione temporale il tetto di oggi rivela possibilità democratiche e inclusive, come ci raccontano i progetti qui in mostra. Una selezione di visioni antisistemiche che accetta perfino di contraddirsi; a volte inclusiva, a volte aristocratica, la babele di torri è ormai di tutti, oscilla tra l’avorio e il cemento, è dominio di ingegneri e tecnici, troppo complessa per essere compresa, troppo attraente per essere abbandonata.

Sulla Torre moderna Barthes espresse un’opinione rilevante “Ciò che le ha permesso di nascere, tuttavia, è una circostanza tecnica estremamente concreta: l’avvento del ferro nell’architettura”. E, come la torre, anche il tetto moderno è frutto di una tecnologia, meno esibito rispetto agli altri arti dell’edificio ma ugualmente irrorato di funzioni e soluzioni linguistiche. Ciò che un tempo era riparo dal mondo esterno diventa oggi cornice per inquadrare e accogliere quello che del mondo si ritiene più interessante: il tetto diventa quadridimensionale ma il tempo che gli è dedicato è  breve, come la sosta in vetta prima della ripresa in discesa. Restare sul tetto implica la necessità di una rifunzionalizzazione permanente che trasformi le eccezioni in occasioni di progetto e di programma affinché tutto l’edificio e la città intera ne facciano parte. Pensare dall’alto, all’alto, significa accettare il difetto della verticalità e compensarlo con la tabula, così come parlare di tetti significa discutere sul cambiamento di un paradigma, perché sui tetti oggi possono salire tutti, trasformati come sono in piazze sociali anche quando non è un Le Corbusier a decretarlo[4].

[1] Charles and Ray Eames, Powers of Ten, IBM, 1977

[2] Roland Barthes, La Tour Eiffel, Milano, 2009, pp. 31-32

[3] Rem Koolhaas, Delirious New York, Milano, 2001, p.23

[4] Le Corbusier, Unité d’Habitation (Cité radieuse de Marseille), Marsiglia, 1947-1952

Design ed ecologie dell’artificiale

di Dante Donegani

Dedicarsi al processo di trasformazione del già costruito, alle modificazioni d’uso degli spazi urbani dietro l’apparente immobilità delle quinte architettoniche.

 

Da questa prospettiva, il design (e non l’architettura o l’urbanistica) è la disciplina che maggiormente contribuisce alla valorizzazione e alla trasformazione della città. Progetti in grado di operare veri e propri trapianti metropolitani, con l’introduzione di nuovi elementi come “organi” riabilitativi di rinnovate abitabilità legate a nuove economie ed ecologie. Progetti che intervengono sulle componenti dei manufatti urbani, immaginando prospettive a volo d’uccello sopra la città attraverso l’introduzione di nuovi layers orizzontali di distribuzione del verde, reti e servizi, o l’inserimento di nuove stratificazioni verticali sulle facciate esistenti con serramenti abitabili, acquari funzionali e sistemi elevatori, concepiti come appendici domestiche o utilizzati come ampliamento delle attività della casa o come supporto mediatico: facciate dinamiche come un vestito scelto in base al gusto, alla funzione o all’occasione e alla voglia di autorappresentazione. Nuove componenti che rimixano le funzioni abitative come possibilità di ‘arredare’ (cioè di rendere abitabile e confortevole) l’architettura attraverso un processo di de-zonizzazione e ibridazione di ciò che la Modernità ha diviso, specializzato e contrapposto: città e campagna, produzione e abitazione, lavoro e tempo libero. Una nuova rete infrastrutturale che rilega orizzontalmente e verticalmente la metropoli del Ventunesimo secolo attraverso nuovi sistemi di distribuzione, condivisione e utilizzo di merci, verde, servizi ed energie. I progetti propongono l’introduzione, nell’architettura cittadina, di sistemi costruttivi e componenti ispirati all’industria, alle strutture  robotizzate della logistica nella fabbrica moderna, alle nuove mobilità di merci e servizi attraverso i droni, o all’agricoltura delle serre: da carri ponte per lo spostamento di pezzi di natura, fiori ed api nei vuoti sopra le strade, a evoluti sistemi elevatori che si muovono in facciata per l’approvvigionamento di merci e alimenti o per lo smaltimento ed il trattamento dei rifiuti; da sofisticate serre agricole con robot contadini alimentate da centrali energetiche, a vasche acquaponiche verticali con pesci pulitori che ripropongono un nuovo International Style.

Domus Academy è da più di trent’anni il luogo di incontro tra sperimentazione e processo formativo. Questa ricerca si inserisce nell’indagine svolta nella scuola, fin dalla sua nascita, intorno ai nuovi modelli abitativi; ricerche sulle grandi trasformazioni della città contemporanea, accompagnate dal tentativo di usare l’approccio del design per affrontare tematiche architettoniche e urbanistiche, come nel caso dei lavori di Master raccolti nel libretto “La quarta Metropoli” del 1990, o del progetto territoriale di Agronica primo modello di “urbanizzazione debole” elaborato all’interno della ricerca “Solid Side” per Domus Academy da A. Branzi, D. Donegani, A. Petrillo, C. Raimondo,  e T. Ben David nel 1996, o dei progetti di Master esposti nella mostra di Mirko Zardini “Notizie dall’interno” alla Biennale di Venezia nel 2004.

Lungo questo percorso culturale si sono sviluppate anche le ricerche di questo corso sulla città contemporanea che Branzi ha battezzato “Metropoli Fredda” (Andrea Branzi, “La quarta Metropoli” Edizioni Domus Academy 1990), che così descrive: “le contraddizioni sociali e culturali invece di esplodere, convivono in equilibrio dinamico: produzione di grande serie e oggetti fatti a mano, programmazione e anarchia, standardizzazione e diversificazione, improvvisazione e codici storici, segni archetipi e puro effimero, lingue internazionali e dialetti, cultura e consumismo, linguaggi di massa e codici privati…Il Design deve quindi muoversi senza perdere questa ricchezza…Il Design non deve trovare improbabili soluzioni globali e definitive, deve piuttosto produrre equilibri locali, una nuova ecologia del mondo artificiale… Il Design, inteso come rapporto tra l’uomo e l’universo artificiale, deve ricercare nuove strategie, nuove qualità e nuove sensibilità per adempiere alla sua funzione: rendere di nuovo abitabile il mondo.”

ROOFS Workshop @Domus Academy, Milan

di Fosbury Architecture

Il tetto è la rappresentazione più tangibile delle fratture sociali urbane.

 

Rifugi esclusivi per i ricchi, sogni ad occhi aperti per coloro che non sono mai stati lì, speculazione per costruttori edili, riserve ecologiche per la fauna urbana, aspiranti foreste per gli ecologisti, tramonti per i romantici, parchi giochi, palchi di protesta per i disperati, set cinematografici, valvole di sfogo, attrazioni turistiche. Dopo un anno di isolamento forzato a causa della pandemia, dilaniato da livelli di inquinamento atmosferico quasi insostenibili e i prezzi delle case in aumento, la colonizzazione del cielo rappresenta una strategia possibile per cercare modelli di crescita alternativi, l’ultima speranza per un ripensamento radicale delle città. Lungi dal favorire il luogo comune secondo cui tetti e attici sono il regno della ricchezza e dell’elitarismo, gli studenti sono invitati a elaborare strategie di progettazione per ospitare nuove funzioni, per lo più pubbliche. Questo esercizio testerà la relazione sinergica tra questo nuovo terreno e la città sottostante.

 

All’inizio del workshop, ogni gruppo sceglierà un programma specifico che risponderà a una serie di urgenze contemporanee. La prima settimana sarà dedicata allo sviluppo di concetti che interpretino scenari definiti dai project-leader e dai direttori dei corsi. Senza un riferimento specifico ad un contesto, ogni gruppo dovrebbe invece proporre un modello -“strategia” o “prodotto”- riproducibile a dispetto della posizione fisica.  Gli studenti di architettura, interior design e product design lavoreranno in gruppi misti. Il tema/progetto sarà condiviso, mentre la sua scala e/o parte del progetto varierà in base alle competenze degli studenti (cioè 1000x1000m per studenti di architettura e urbanistica; 100x100m per studenti di interior design e 1x1m per studenti di product design). I risultati finali inoltre cambieranno in funzione del corso di studi dello studente di studio (le informazioni più precise saranno fornite durante la prima lezione).

 

Particolare attenzione sarà dedicata all’impatto finale del progetto in termini di capacità di stabilire relazioni urbane e di delineare nuove ibridazioni nella città consolidata.