In un momento storico cruciale, il concetto di resilienza assume una valenza strategica anche in architettura. Risulta necessario tornare ad immaginare scenari futuri e stimolare visioni radicali.

di Monica Battistoni

In questo caso può venirci in soccorso la biologia, che definisce la resilienza come la capacità di una comunità –o sistema ecologico– di ritornare al suo stato iniziale dopo una perturbazione che l’ha allontanato da quello stato. Sottintende quindi una caratteristica di adattamento e riorganizzazione in grado di sfruttare il potenziale delle risorse a sua disposizione in maniera innovativa. La componente creativa svolge un ruolo fondamentale, come è confermato da studi antropologici e paleontologici. È proprio nei momenti di crisi che si innescano processi che permettono di sperimentare nuove soluzioni e migliorare semplici meccanismi aggiungendo piccoli cambiamenti quotidiani. La creatività, in tal senso, appartiene alla sfera del pensiero associativo e definisce la capacità di fare connessioni e associare immagini simili. Nei secoli, l’ottimizzazione del passaggio dal pensiero analitico a quello associativo è divenuto il segno distintivo dell’evoluzione umana.

Il parallelismo con l’architettura risulta quasi spontaneo, dovendo spesso confrontarsi con eventi catastrofici e imprevisti, nonché con condizioni preesistenti spesso vincolanti. Tutte quelle condizioni al contorno che potrebbero, in prima battuta, sembrare limitanti ed inibire la genesi di qualsiasi opera architettonica, diventano invece –se affrontati con il giusto mindset– occasione per implementare soluzioni creative e finalizzare risultati innovativi. Questo processo evolutivo non è una novità in ambito urbano; se si osserva il tessuto storico delle città italiane si troveranno continuamente elementi frutto di processi di autorigenerazione adattiva. In questo senso, alla figura dell’architetto è affidato il ruolo cruciale di saper individuare il ventaglio di possibilità progettuali proposte dal contesto e raccogliere lo stimolo per realizzare soluzioni creative. Non fermarsi alle soluzioni meramente convenzionali ma guardare oltre, prefigurare degli scenari.

A farsi portavoce di visioni utopistiche e talvolta irrazionali è stato un gruppo di architetti d’avanguardia che seppe far propri i temi dell’inclusività delle relazioni e della sperimentazione come rottura degli schemi convenzionali. Architettura Radicale è l’appellativo che li contraddistingue, nonostante Toraldo Di Francia dichiarerà: “noi non ci siamo mai chiamati Radicali”. Non un movimento architettonico ma piuttosto un’attitudine, un modo di guardare il mondo andando in controtendenza con l’orientamento della maggioranza, ancora legato ai dettami del Movimento Moderno. Il loro atteggiamento diviene resiliente nel contrapporsi alle convenzioni architettoniche del tempo che andavano assecondando sempre più le richieste dell’era dei consumi. Rispondono a questa fase di cambiamento, che interessò il periodo a cavallo tra anni ’60 e ’70, con proposte innovative e fuori dagli schemi che tutt’ora lasciano innumerevoli spiragli di riflessione per immaginare mutazioni future. La sua diffusione fa capo al gruppo londinese Archigram, raccoglie le esperienze viennesi di Hans Hollein e Walter Pichler, e approda in Italia, in particolar modo a Firenze, sollecitando l’interesse di alcuni giovani attivisti che confluiranno in studi del calibro di Archizoom e Superstudio.

Tra questi milita Gianni Pettena, il cui pensiero radicale si esprime nel rifiuto di riconoscere i confini tra le discipline, il che lo porta a definirsi un anarchitetto, una persona per la quale “parlare di architettura è una metafora per parlare di una condizione creativa che è destinata a fare architettura, ma che finisce per fare arte”. In lui il concetto di resilienza si declina in un approccio multidisciplinare; la sperimentalità delle opere investe diversi ambiti di ricerca e si confronta anche con la produzione artistica. Il progetto per la torre di Brufa a Perugia (2017) è un esempio di questa polifonia progettuale. Interessa il recupero e la valorizzazione della grande torre dell’acqua ancora in uso, posta sulla cima della collina a ridosso del centro storico di Brufa. Concepita come un osservatorio affacciato sul panorama, è circondata da una scala schermata da un grigliato di rete metallica dalla forma irregolare che accoglie la crescita spontanea di piante rampicanti. La struttura diventa così un belvedere di fruizione pubblica nel quale la destinazione originaria si contamina di un uso diverso che, grazie al contributo della natura, favorisce l’integrazione dell’architettura rurale nel paesaggio, trasformandola in un luogo di conoscenza.

La strada della contaminazione è stata percorsa da altre figure capaci di raccogliere spunti tanto dall’architettura radicale quanto dalle numerose esperienze provenienti dal panorama architettonico contemporaneo. La varietà di contributi innesca processi di cooptazione funzionale capaci di trasformare in occasioni di accrescimento le possibilità offerte dalla pluralità degli ambiti disciplinari coinvolti. Questo tema fu molto caro a Massimo Pica Ciamarra, che sin dagli studi universitari sviluppa una visione critica del razionalismo proposto dal Movimento Moderno. Amante delle spazialità svincolata da qualsiasi rigore formale, la sua esperienza è influenzata dall’incontro con il Team X che si traduce in una ricerca progettuale attenta alla costruzione di luoghi piuttosto che di volumi. Alla riconoscibilità delle archistar, fatta di segni architettonici distintivi, Pica Ciamarra risponde con spazi di affascinante complessità, che risultano di grande stimolo agli occhi del visitatore. La sua attitudine viene definita “inclusivismo onnivoro”, ad esprimere quella abilità di captare dalle realtà esterne – disciplinari e non – quanti più spunti possano essere reimpiegati nella risoluzione di problemi progettuali. Sin da tempi non sospetti, i suoi progetti per l’Istituto Motori del CNR a Napoli (1987) e per la sede Teuco Guzzini a Recanati (1995) introducono tecnologie innovative mirate alla riduzione dei consumi e all’aumento del benessere ambientale. In questo caso l’acqua, utilizzata come strumento di raffrescamento, entra a far parte del progetto delle facciate e degli spazi di connessione. L’ecologia è per l’architetto non soltanto un bene in sé e per sé, ma effettiva fonte di ispirazione formale.

La valorizzazione di un approccio all’ecologia che diventa catalizzatore di progetti resilienti coinvolge a pieno la comunità, primordiale motore di qualsiasi attività di miglioramento e principale beneficiario degli esiti da esso derivanti. La conoscenza del luogo e delle sue caratteristiche intrinseche guidarono i progetti di un altro protagonista del panorama internazionale. Fabrizio Carola, architetto, designer e urbanista italiano, sembra poter essere inserito a fatica in quelle categorie in cui siamo soliti raccogliere gli esponenti del panorama architettonico, e non solo. Poco conosciuto in Italia, ma molto in ambiente internazionale per i suoi numerosi progetti realizzati in Africa. La sua progettualità è infatti libera da tutti i preconcetti derivanti delle esperienze architettoniche consolidate. La genesi dell’opera architettonica è frutto di un processo adattivo ispirato da principi quali la semplicità e l’economicità. Lavorando principalmente in territorio sahariano, sperimenta come le tecnologie migliori siano quelle che impiegano materiali del luogo, come la terra cruda o il laterizio. In questo modo dà vita a cupole e geometrie curvilinee, sperimentate in tutte le loro conformazioni, che rispondono ad esigenze costruttive e aggregative di ottimizzazione e dinamismo degli spazi. Nell’ospedale regionale di Kaedi in Mauritania (1981), la disposizione della pianta fa sì che il flusso del personale sanitario sia separato da quello riservato ai familiari e assistenti del paziente, permettendo che quest’ultimo si affacci direttamente su uno spazio all’aperto comunicante con ogni camera. Una sensibilità che promuove la fluidità degli spazi in favore della compenetrazione delle relazioni fra utenti.

La comunità infatti è la dimensione all’interno della quale proliferano le relazioni, innescando processi di mutazione spontanei e partecipati. La città diventa sede di sperimentazioni creative che affondano le radici nella cultura del luogo. È proprio una figura femminile –fra le poche del tempo– a dedicare la sua vita lavorativa alla promozione del potenziale sociale e culturale dell’architettura e del design. Achillina Bo Bardi (per tutti Lina), architetto e designer prolifico di formazione evidentemente modernista, dimostra sin dalla giovane età un estremo attivismo sociale e un rigore ideologico che la porteranno ad approfondire il pensiero degli architetti radicali italiani. Dopo il suo trasferimento in Brasile, è inoltre rapidamente incuriosita dal design popolare e decide di approfondire come questo possa influenzare una moderna architettura brasiliana, distante dallo stile internazionale imposto dalle archistar. Si cimenta con il progetto del Museo di Arte di San Paolo (1949), per il quale realizza un edificio sospeso sopra una piazza lunga 70 metri. Il grande spazio libero è il luogo preposto allo svolgimento delle più svariate attività, dagli incontri alle feste tipiche della cultura folkloristica. Lo spazio espositivo interno, si caratterizza per un’estrema flessibilità accentuata dalle pareti perimetrali vetrate che relegano l’esposizione ad un flusso centrale libero. Il suo lavoro esprime la capacità di fondere architettura, politica e cultura popolare, desiderando rompere le barriere tra gli intellettuali e la gente comune.

Un gruppo di visionari quello descritto che, alla meta-narrazione e al linguaggio convenzionale tipico del loro campo professionale, hanno preferito guardarsi intorno e lasciarsi ispirare dall’istinto e dal vissuto piuttosto che dal rigore accademico. Invece di realizzare edifici e oggetti di design hanno piuttosto progettato scenari radicali che fecero vacillare le certezze assolute della pratica progettuale, affrontando questioni urgenti con cui l’architettura si trova ancora oggi a confrontarsi.

 

“It is hope that gives life meaning. And hope is based on the prospect of being able one day to turn the actual world into a possible one that looks better.”

François Jacob

 

 

Immagine di copertina: Superstudio, Monumento Continuo,1969