Il Rapporto ‘Our Common Future’, pubblicato nel 1987 dall’Organizzazione delle Nazioni Unite, conteneva già una visione strategica per il futuro resiliente e sostenibile del mondo e di tutti noi.

di Luisa Bravo.

Secondo il programma Habitat sugli insediamenti umani dell’Organizzazione delle Nazioni Unite (ONU), la resilienza si riferisce alla capacità di un sistema urbano di conservare la propria struttura in risposta a diversi shock e stress ambientali, adattandosi e rigenerandosi, e promuovendo allo stesso tempo un cambiamento positivo e sostenibile. Pertanto, una città resiliente è quella che valuta, pianifica e agisce per prepararsi a rispondere a tutti i pericoli, sia improvvisi che a insorgenza lenta, previsti o imprevisti, che possano mettere a rischio la stabilità del sistema ambientale, sociale ed economico.

Rafforzare la resilienza significa ridurre i rischi, aumentando le capacità e diminuendo le fragilità, migliorando risposte efficaci e lungimiranti sviluppate secondo un processo di consapevolezza costruttiva, volta a cercare il miglioramento delle qualità della vita degli individui e delle comunità nei contesti urbani. Resilienza significa quindi parlare anche di salute di benessere collettivo, secondo un approccio che non è disgiunto dalla pianificazione economica ed urbana dei territori, come abbiamo imparato nel corso dell’ultimo anno, quando la pandemia COVID-19 ci ha trovato impreparati e pericolosamente fragili, mettendo in crisi la nostra normalità.

Essere resilienti significa operare nell’ambito di un processo allineato con i 17 obiettivi dello sviluppo sostenibile dell’Agenda 2030 (https://unric.org/it/agenda-2030/) sottoscritta nel settembre 2015 dai governi dei 193 Paesi membri dell’ONU. L’Agenda lavora su obiettivi comuni e condivisi, che riguardano tutti i Paesi e tutti gli individui: nessuno ne è escluso, né deve essere lasciato indietro lungo il percorso della sostenibilità.

L’Agenda affonda le sue basi nel Rapporto Brundtland pubblicato dall’ONU nel 1987, meglio noto come ‘Our Common Future’ (https://sustainabledevelopment.un.org/content/documents/5987our-common-future.pdf), promosso da Gro Harlem Brundtland, nel suo ruolo di Chair della Commissione mondiale per l’ambiente e lo sviluppo (WCED – World Commission on Environment and Development). Gro Harlem Brundtland è stata la prima donna ad essere eletta Primo Ministro norvegese, ha ricoperto questo ruolo per tre volte, tra il 1981 e il 1996, e successivamente è stata Direttore Generale dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (1998-2003) e Special Envoy on Climate Change per l’ONU (2007-2010). Nel 2007 è stata invitata da Nelson Mandela a ricoprire il ruolo di Vice Presidente di The Elders (https://theelders.org/profile/gro-harlem-brundtland) (2013-2018), una organizzazione non governativa che ha invitato i leader del mondo, insieme a statisti, attivisti per la pace e difensori dei diritti umani, a lavorare su soluzioni riguardo a problemi apparentemente insormontabili come la povertà, in particolare nel sud del mondo, le disuguaglianze sociali, il cambiamento climatico e la salute.

Nella sua straordinaria carriera, Gro Harlem Brundtland ha guidato il pensiero e l’azione in risposta alle pandemie, definendo la salute pubblica come diritto umano, e mettendo lo sviluppo sostenibile al centro dell’agenda internazionale. Come membro del Council of Women World Leaders, fondato nel 1997 da Madeleine Albright, prima donna a servire come Segretario di Stato negli Stati Uniti d’America (1997-2001), ha promosso il diritto delle donne ad avere una educazione, a lavorare e a ricoprire ruoli apicali nel settore pubblico e privato, come unica possibilità per costruire una società più equa e prospera.

Ciò che dovevamo sapere sulla resilienza e sulla sostenibilità era già scritto nel rapporto Brundtland del 1987, un documento che inquadra lucidamente lo stato del mondo e la necessità di ripensare un modello di governance più capace, più ambizioso, più strategico e interconnesso, e più orientato al futuro. Il Rapporto Brundtland comprende capitoli che trattano, tra gli altri argomenti, nell’ambito dello sviluppo sostenibile, il ruolo dell’economia internazionale, della popolazione e delle risorse umane, la sicurezza alimentare, le specie e gli ecosistemi, l’energia, l’industria e i principi legali per la protezione ambientale. Il rapporto ha gettato le basi per il Rio Summit, tenutosi a Rio de Janeiro nel 1992, che ha poi portato alla creazione della Commissione delle Nazioni Unite per lo Sviluppo Sostenibile nello stesso anno. Vale la pena ricordare che nel Rapporto Brundtland lo sviluppo sostenibile viene definito come uno sviluppo che ‘meets the needs of the present without compromising the ability of future generations to meet their own needs’ che vuol dire ‘che consente alla generazione presente di soddisfare i propri bisogni senza compromettere la possibilità delle generazioni future di soddisfare i propri’. Il concetto di ‘bisogno’, in riferimento agli individui e alle comunità, è centrale per capire la resilienza e quindi la sostenibilità. Innanzitutto nella sua definizione: di cosa hanno bisogno gli individui e le comunità per vivere bene e crescere prosperosamente? La risposta non è affatto scontata, anzi è molto complessa e richiede di inquadrare gli individui e le comunità in un contesto sempre più dinamico e globale, che si evolve velocemente esasperando disuguaglianze, vulnerabilità e frammentazione sociale, anche a seguito di un processo di urbanizzazione rampante che ha troppo spesso fatto prevalere l’interesse privato su quello pubblico. A questo si aggiunge il cambiamento climatico e il ritardo del mondo politico ad allineare le scelte che più hanno impatto sui sistemi urbani alle ricerche della comunità scientifica, che già a partire dagli anni Settanta presentava scenari e discuteva sulle possibili conseguenze dell’alterazione dell’equilibrio uomo-ambiente. L’ONU ha stimato che nell’ultimo decennio, le catastrofi naturali hanno colpito più di 220 milioni di persone e causato danni economici per 100 milioni di dollari all’anno. Il numero di persone colpite da catastrofi dal 1992 ammonta a 4,4 miliardi di persone (pari al 64% della popolazione mondiale) e i danni economici ammontano a circa 2,0 trilioni di dollari. Solo nel 2015, 117 paesi e territori – il 54% del mondo – sono stati colpiti da catastrofi.

Nel 2007 il Comitato Intergovernativo per i mutamenti climatici (IPCC) dell’ONU insieme ad Al Gore, vice Presidente degli Stati Uniti d’America nel governo Clinton, ha vinto il premio Nobel per la pace per aver sensibilizzato le persone comuni sui temi dell’ambiente e sulle conseguenze che una politica non interessata a preservare le risorse ambientali può produrre sull’habitat di vita degli esseri umani. Ma la questione non è solo politica, è piuttosto morale e interessa tutti noi.

La resilienza è lo strumento operativo per la sostenibilità, come declinata nell’Agenda 2030. Non è uno slogan, come alcuni potrebbero pensare, usato per arricchire il linguaggio di contenuti vuoti. Nel 2019, nel corso dell’High-Level Political Forum on Sustainable Development tenutosi a New York, António Guterres, Segretario Generale dell’ONU, ha chiarito la necessità di avviare un Decade of Action, cioè un decennio di azione concreta verso il raggiungimento degli obiettivi sostenibili, declinato su tre livelli: azione globale per garantire una maggiore leadership, più risorse e soluzioni più intelligenti per gli obiettivi di sviluppo sostenibile; azione locale che integri le transizioni necessarie nelle politiche, nei bilanci, nelle istituzioni e nei quadri normativi di governi, città e autorità locali; e azione delle persone, anche da parte dei giovani, della società civile, dei media, del settore privato, del mondo accademico e di altri soggetti portatori di interessi, per generare un movimento inarrestabile che spinga per le trasformazioni richieste.

Il Decade of Action ha avuto inizio con la pandemia COVID-19 e ci chiede di essere resilienti. Se abbiamo imparato qualcosa dal Rapporto Brundtland, quello che dobbiamo fare è dismettere sterili conversazioni e rigettare documenti pieni solo di buone intenzioni che diventano manifesto politico finalizzato solo al consenso. E’ tempo di agire, a scala locale ma con una prospettiva che abbraccia la complessità del mondo globale, è tempo di costruire una visione chiara di come attuare politiche pubbliche innovative e più efficaci, anche in collaborazione con il settore privato, e di gettare le basi di un percorso che dia più spazio e più potere agli individui e alle comunità resilienti, come protagonisti e non più solo comparse, nella costruzione del futuro dopo di noi.